Le Olimpiadi dei diritti

Chi di noi che seguiamo gli scenari di guerra che stanno sconvolgendo questo periodo della nostra vita non ha fatto delle considerazioni di fronte allo sfarzo e agli sprechi delle Olimpiadi 2024? Il nostro Socio, Michele Cecere, ci invia le sue riflessioni post-olimpiche pubblicate da La Gazzetta del mezzogiorno.

«Olimpiadi dei diritti» è la provocatoria proposta di Enrica Simonetti dopo i 15 giorni parigini, vissuti dagli atleti in un limbo appena sfiorato da quella terza guerra mondiale a pezzi, i cui frammenti rischiano pericolosamente di compattarsi e lasciare sempre meno spazio alle speranze di pace.

Surreale aver discusso per giorni dell’inquinamento della Senna, mentre quel miliardo e quattrocentomilioni di euro, speso per rendere navigabile e nuotabile il fiume parigino, avrebbe potuto essere accantonato per la ricostruzione di Gaza o dell’Ucraina. Non meno surreale è stato vedere sfilare gli atleti israeliani e ucraini, mentre i loro popoli sono in guerra, ma la stessa Enrica Simonetti ha ricordato che la tregua olimpica è sempre stata una chimera.

Delle Olimpiadi viene spesso citato il detto attribuito a Pierre De Coubertin, considerato il padre dei giochi olimpici moderni, «l’importante non è vincere, ma partecipare». Andrebbe ricordato a molti atleti, per primi quelli della nostra nazionale di pallanuoto, «mortalmente offesa» da decisioni arbitrali opinabili ma che vanno sempre rispettate. Il motto che campeggia negli stadi olimpici è citius, altius, fortius, più veloce, più in alto, più forte. Mi piace ricordare la versione alternativa che coniò Alex Langer, padre dei verdi italiani: «Più lentamente, più in profondità, con più dolcezza». Ed è proprio quello di Langer il motto che vorrei proporre alle Olimpiadi del diritto.

Olimpiadi che non potrebbero prescindere da Kimia Yousofi, l’atleta afgana che a Parigi 2024 ha mandato un messaggio ai talebani e al mondo intero, col suo rudimentale cartello creato sul retro del suo pettorale della gara in cui è arrivata ultima, per rivendicare tutele e diritti per tutte le donne del suo Paese, perché anche la pratica sportiva è negata alle donne in quel Paese! E poi Manizha Talash, atleta di breaking della Squadra Olimpica Rifugiati, squalificata ai giochi di Parigi per aver sfoggiato in gara una mantellina con la scritta: «Free Afghan women», ovvero «Donne afghane libere».

Un diritto fondamentale è quello di poter manifestare e protestare. Guardando al passato, sul mio podio ideale dei diritti, riserverei un posto a Věra Čáslavská, grande ginnasta cecoslovacca, la più decorata del suo paese, 7 ori e 4 argenti olimpici. Ai Giochi di Città del Messico 1968 si voltò dall’altra parte quando partì l’inno sovietico. Erano i giorni successivi alla Primavera di Praga, la rivolta soffocata dai carri armati sovietici. Tornata in patria e osteggiata dal regime, si ridusse a lavorare come donna delle pulizie pur di non appoggiare l’invasione sovietica.

Sullo stesso podio piazzerei in alto Peter Norman, dimenticato atleta australiano (la sua storia è stata riscoperta da Michela Murgia nel suo Noi siamo tempesta del 2019). È il 16 ottobre del 1968, a Città del Messico Tommie Smith vince la medaglia d’oro dei 200 metri stabilendo un record del mondo che solo 11 anni dopo il nostro Mennea batterà, nella stessa città. La premiazione di Smith e di John Carlos, il secondo atleta USA terzo arrivato, diventa uno degli scatti più famosi della storia sportiva, i loro pugni alzati con guanto nero bucano gli schermi televisivi del pianeta. Sono pugni di protesta per le condizioni degli afroamericani negli Stati Uniti, Smith e Carlos aderiscono infatti al movimento «Olympic Project for Human Rights» («Perché dovremmo correre in Messico solo per strisciare a casa?» era scritto sul manifesto di quegli atleti) ma decidono di correre alle Olimpiadi nonostante il boicottaggio di tanti atleti neri (pochi mesi prima era stato assassinato Martin Luther King).

Pochi ricordano il terzo protagonista di quel podio, la medaglia di argento, l’australiano Peter Norman, che si mostra solidale con la rivendicazione dei due statunitensi, appuntandosi alla maglia lo stemma del Progetto Olimpico per i diritti umani, l’organizzazione a cui aderiscono Smith e Carlos.

Rientrato in Australia dopo la gara, per quel suo piccolo gesto, mai rinnegato, Norman subì le negative ripercussioni in tutto il suo Paese, all’epoca scosso da forti tensioni causate dall’apartheid contro gli aborigeni. Rifiutò sempre di condannare il gesto di Smith e Carlos in cambio di una riabilitazione nazionale e fu escluso per sempre dalle gare agonistiche nè ottenne mai un lavoro fisso, nemmeno come insegnante di ginnastica.

Del tutto dimenticato dal suo Paese, nel 2006 al suo funerale furono proprio Tommie Smith e John Carlos a portare la bara di questo eroe dimenticato.

E solo nel 2012 il Parlamento Australiano lo riabilitò alla storia, con tante scuse per 40 anni di discriminazioni.

Da La Gazzetta del Mezzogiorno

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