Nei campi profughi del Libano Meridionale, di O. Ambrosanio. Micropolis 1/2024

Il N. 1/2024 di Micropolis, mensile umbro di politica, economia e cultura che esce con Il Manifesto, ospita un articolo di Olga Ambrosanio sull’esperienza, ormai ventennale in quell’area, dell’associazione ULAIA ArteSud ODV.

Dopo quasi vent’anni di attività della nostra associazione, colgo con questo articolo l’opportunità di fare un bilancio delle iniziative promosse e dei risultati ottenuti, rendendone partecipe un pubblico più vasto di quello dei soci.
In questo lungo periodo, le attività associative si sono svolte nei campi profughi palestinesi del Libano meridionale, la cui situazione avevo conosciuto di ritorno dalla Palestina partecipando ad un campo di lavoro organizzato dal Servizio Civile Internazionale e da Un Ponte per. In quel mese conobbi, con incredulità, le condizioni in cui ancora oggi vivono in Libano i palestinesi arrivati dalla Palestina nel ’48 e nel ’67 e i loro discendenti, ormai di quarta generazione, equiparati agli stranieri in quanto il Libano non ha mai riconosciuto la Convenzione di Ginevra del 1951. Lo stesso stupore lo riscontro ogni volta che qui in Italia ne riferisco in incontri pubblici.


Il Libano ha sempre adottato una politica di negazione dei diritti basilari sanciti dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, a cominciare dall’art. 23 sul diritto al lavoro, primo fra tutti perché è il lavoro che conferisce autonomia e dignità agli esseri umani. I palestinesi sono ostacolati nell’accesso al lavoro: non tutti i lavori sono ammessi e per quelli ammessi, in caso di ex equo alle selezioni, vige la legge della preferenza nazionale che privilegia i libanesi. Inoltre per accedere ad alcune professioni, come quelle di medico, ingegnere, avvocato, ai palestinesi è necessario un permesso di lavoro, che viene rilasciato loro in percentuali esigue e l’esercizio della professione non dà diritto a uguale retribuzione per uguale lavoro, perché viene applicata una decurtazione degli stipendi del 30% e anche più se impiegati in nero. Infine, per un lavoratore palestinese non c’è protezione sociale per malattia, maternità, infortuni, pensione. La copertura per queste condizioni è data dalla meno conosciuta Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo del 1981, adottata dalla Lega degli Stati arabi e firmata da diversi paesi tra cui il Libano, il cui spirito è la negazione dei diritti per chi non è cittadino dei paesi firmatari: un non-senso per i palestinesi, che non hanno uno stato.


Su questa situazione, immutata da quando siamo arrivati in Libano, negli anni abbiamo visto innestarsi altri fenomeni di erosione dei diritti. L’istruzione è ormai un altro ramo secco delle funzioni di UNRWA (Agenzia ONU creata per il soccorso ai profughi palestinesi).
I pessimi risultati degli studenti palestinesi agli esami nelle scuole libanesi sono un indice pauroso del decadimento nella gestione delle scuole per i programmi imposti, per la frequenza (spesso a settimane alterne), per gli insegnanti che si riducono sempre di più mentre il numero di bambini nelle classi aumenta. Il diritto alla salute è minato invece dalla nuova policy intro-dotta da UNRWA nel 2016.


Nel corso degli anni le nostre attività in Libano sono state rivolte principalmente ai bambini, per restituire loro ciò che non è previsto nei programmi scolastici di UNRWA, come le materie artistiche, che stimolano la creatività e producono una evasione dalla pesante quotidianità, la musica, che è un potente strumento per sviluppare l’autostima e valorizzare il proprio potenziale personale messo in discussione dalla situazione circostante, o lo sport, indispensabile per gli effetti positivi sul corpo e sulla mente. Alle donne ci siamo rivolti con corsi di difesa personale e corsi pluriennali di shiatsu che hanno abilitato qualcuna di loro ad esercitare la professione (i mestieri che attengono alla sfera del benessere non sono vietati) e dunque a contribuire all’economia familiare. Per i teen-agers, con il finanziamento dell’Otto per Mille della Chiesa Valdese Italia, abbiamo istituito una scuola di musica e fatto crescere un’orchestra classica, che ha raggiunto livelli di performance elevati. Per i giovani, maschi e femmine, della banda di cornamuse, invece, abbiamo organizzato due Tour itineranti in Italia nel 2009 e nel 2017, trasformandoli in amba-sciatori della loro situazione in Libano e rispondendo, nel contempo, all’aspirazione generalizzata di viaggiare all’estero. L’edizione del 2017 ci ha visto, tra l’altro in Umbria e all’Università per stranieri di Perugia nell’ambito di Umbria MiCo organizzato dall’ONG Tamat.


Per continuare a gestire i progetti che vanno avanti da anni è sempre più necessario “dribblare” i problemi del Paese, un crescendo di difficoltà che vanno dallo scoppio della Tawra, le proteste di popolo che con le frequenti manifestazioni e i blocchi stradali tagliavano la via verso il Sud e impedivano ai maestri di musica di raggiungere il campo, al Covid, allo scoppio al porto di Beirut del 2020, con il suo fardello di morti, feriti e sfollati. Il peggioramento delle condizioni economiche in Libano ci ha posti di fronte alla necessità di convertire la seconda tranche del progetto per l’adeguamento della palestra – realizzata nel 2018 grazie al finanzia-mento dell’Otto per Mille Valdese – in acquisto di cibo per le famiglie nei campi profughi, ridotte alla fame. E per la volatilità della valuta locale abbiamo anche dovuto soprassedere al progetto di microcredito di cui avevamo appena finito di definire i particolari.


Oggi la crisi economico-finanziaria, il default del Paese, l’immobilismo politico desolante e la caduta della moneta locale, sprofondata a 94.000 lire libanesi per un dollaro, ci presentano un altro scenario da fronteggiare. Dal Libano è in atto un lento, silenzioso esodo dei suoi figli migliori, professionisti, artisti, medici, in-segnanti, musicisti; chi può se ne va, e questo ha già influito sul progetto musicale “Banda senza Frontiere” per la partenza del direttore d’orchestra verso un paese arabo. Mentre scri-vo, a parte la guerra in atto nel Sud del Libano, giunge la notizia dell’incursione di Israele nel quartiere meridionale di Beirut, roccaforte di Hezbollah, con l’uccisione di uno dei massimi leader di Hamas e dell’attentato con oltre 100 morti a Teheran durante la commemorazione per il quarto anniversario dell’uccisione del ge-nerale Suleimani per mano americana. A parte le dichiarazioni e le minacce che si sovrappon-gono, la gente in Libano ha paura! Le mamme tendono a tenere i figli con sé per la probabili-tà di dover evacuare anche da Tyro, dove oggi sono giunti gli sfollati dai villaggi a Sud del fiume Litani, più prossimi al confine con Israe-le, dove imperversa la battaglia tra Hezbollah e l’esercito israeliano.


Ma i palestinesi, irrimediabilmente in trappola perché indesiderati ovunque, non hanno speranza di trasferire le famiglie all’estero. Le po-che partenze sono collegate a visti studio o a offerte di lavoro nel ramo infermieristico, che è risaputo essere in difficoltà ovunque, nei paesi occidentali come in quelli del Golfo. E dopo l’attacco del 7 ottobre di Hamas ci aspettiamo una ulteriore chiusura dei paesi occidentali ver-so i palestinesi, che, ci consta, già si è preannunciata in questi giorni sotto forma di velati avvertimenti verso chi è già nel nostro paese da anni e svolge la sua attività nel mondo del lavoro. Gli stessi inviti ad una sottoesposizione del proprio giudizio sulla guerra di Gaza, li ha ricevuti un nostro conoscente in Francia, in questo caso arabo libanese, non palestinese! Anche se forse non ce ne siamo ancora accorti, abbiamo perduto la libertà di espressione, il diritto pri-mario di una democrazia.
Del resto, se conosciamo gli aspetti legati alla detenzione di Assange, cosa possiamo aspettarci d’ora in poi se non riusciamo a fermare la sua estradizione negli USA, reo solo di aver eserci-tato la sua professione di giornalista e di averci svelato gli scomodi retroscena della guerra in Afganistan e in Iraq?


Quei ragazzi che agli albori del progetto musicale avevano 10 anni, ora ne hanno 20. Qualcuno ha abbandonato scuola e musica per la necessità di sostenere economicamente la famiglia anche con quel piccolo introito che può dare un lavoro in edilizia o in agricoltura; qualcun altro, che è stato aiutato per una borsa di studio universitaria in Libano, chiede di andare all’estero per la Magistrale o un Master. Tutti chiedono una svolta alla loro vita che il Libano non può dare.
E dunque, senza perdere di vista gli effetti della solidarietà che portiamo nei campi con la presenza dei volontari, principalmente in quello di Burj al Shemali, che abbiamo “adottato”, ci chiediamo se non sia meglio destinare le nostre risorse economiche alla copertura delle spese per l’istruzione dei palestinesi in Libano e all’invito nelle nostre Università, i cui costi di ingresso in Italia al momento ammontano a 6.600 euro annui. La nostra associazione ha invitato già cinque studenti in Italia e i primi, ormai ingegneri, sono impiegati a tempo indeterminato in compagnie italiane. “Fai viaggiare la cultura” – così si chiamava il primo progetto finanziato interamente da nostri soci ed amici – nel tempo ha dato i suoi frutti anche nel campo degli aiuti economici che le famiglie ricevono dai figli in Italia. Il progetto oggi continua con “Odissea” e al momento accoglie la prima studentessa palestinese del campo di Ein el Hilweh al Politecnico di Milano per la magistrale in “Cambiamenti ambientali e sostenibilità globale”.


La scelta degli studenti da invitare, a volte ricade su ragazzi coinvolti nel progetto di sostegni a distanza che intratteniamo con il partner NISCVT/Beit Atfal Assumoud, come nel caso di Hussein (nome di fantasia) che conoscevamo da oltre 11 anni. Quando il sostegno terminò Hussein ci scrisse una lettera molto carina ringraziando la sua sponsor e manifestando il desiderio di venire in Italia per la Magistrale. Accettammo immediatamente poiché conoscevamo da anni le sue performances scolastiche, e arrivò al Politecnico di Milano nell’anno accademico 2021-22. L’anno successivo Hussein rifiutò l’importo di 6.600 euro che gli avevamo garantito per il secondo anno chiedendoci di devolverlo ad altri studenti dei campi in quanto lui riusciva a mantenersi con un lavoro a ore in un negozio di manutenzione cellulari. Riporto questo episodio affinché diventi di dominio pubblico. Di questo sono capaci i palestinesi, troppo spesso presentati all’opinione pubblica nei loro aspetti peggiori. Ma ci siamo mai chiesti quanto possa durare la vita in cattività cui è costretto un popolo dalla politica, prima di esplodere? Ci sorprendiamo di reazioni, ovviamente condannabili, dettate dalla disperazione che non dà più un prezzo alla vita stessa? Mentre invitiamo a rigettare la costruzione che ci viene imposta dal dominio dei poteri forti sulla stampa e sui media, che continua a perorare la causa di Israele in dispregio ai crimini che stanno compiendo a Gaza, noi continueremo a trovare spazi di intervento per questi ragazzi che sono intrappolati in Libano e vedono sfumare la loro gioventù. Chi vuole unirsi a noi è il ben-venuto. www.ulaia.org
*Presidente dell’associazione Ulaia

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