I campi palestinesi del Libano un rifugio ai profughi dalla Siria.
Olga Ambrosanio, Tyro, 6 maggio 2013.
Con base a Burj al Shemali, è circa un mese che mi muovo tra i vari campi profughi del Libano per incontrare i responsabili dei Centri Assumoud con i quali ULAIA ha rapporti.
La mia domanda sulla situazione attuale riceve risposte che sembrano attinte ad un unico copione, dal Nord al Sud, passando per Beirut. Ciò che vedo è come una pellicola che ricomincia sempre daccapo, in ogni campo. Cambiano solo i volti dei protagonisti e talvolta anche quelli ti sembrano tutti uguali. Dietro occhi di colore diverso, un unico sguardo smarrito e spaurito. I volti provati dalla violenza vissuta e dal disagio presente. Il corpo esprime un “rifornimento” non sempre adeguato: sono i profughi palestinesi in fuga dalla Siria arrivati in numero massiccio a sommare la loro disperazione a quella già presente da sempre nei campi profughi del Libano.
Dalle porte mezze aperte di garage e di vecchi rifugi dismessi, la luce fioca che si alterna a quelle delle candele per la cronica mancanza di corrente, lascia intravedere persone sedute a terra ammutolite dallo sgomento per ciò da cui sono scappate ed incredule per quanto invece hanno trovato. “Non fanno lavorare i Palestinesi qui in Libano” – mi dicono – senza aggiungere null’altro a ciò che da sempre so, se non la meraviglia della loro meraviglia.
Nella suddivisione del mondo occidentale l’UNRWA si interessa dei palestinesi provenienti dalla Siria, l’UNCHR dei siriani. Nei campi, invece, non si fa differenza, in Beit Atfal Assomoud nemmeno, il bisogno non ha connotazioni di provenienza, la disperazione è comune.
Ai 100 dollari a famiglia assegnati dall’UNRWA, ma non tutti i mesi, si sono aggiunti gli aiuti di ANERA (American Near East Refugees Aid) al Centro ed al Sud, quelli di un’altra Associazione al Nord. Entrambe si sono avvalse della collaborazione di Assumoud sia per la distribuzione e la logistica, che per l’indagine sui bisogni dei profughi dalla Siria a cui si riferiscono alcuni dati citati in questo report.
Da ANERA sono arrivati a fine aprile coupon di 23 € per ciascun componente il nucleo familiare per il cibo, altrettanto per il vestiario, oltre ad un Kit per igiene personale (spazzolino, dentifricio e bagno schiuma), asciugamano, 1 coperta e due lenzuola. Il tutto, mi dicono, di buona qualità, ma una tantum.
E’ poco rispetto alle esigenze, eppure a loro che vedo in fila davanti agli elenchi affissi al centro Assomoud di Burj al Shemali, sembra già tanto. Segno che esistono e che non sono stati dimenticati. Serve anche questo.
L’indagine condotta su 4299 persone di cui il 74% costituito da donne e bambini dislocati in 669 abitazioni, esprime una media di circa 7 persone ad abitazione, ma è solo una media! Segmentando i dati, il 46% delle abitazioni risulta abitato da almeno 10 persone ed il 27% da più di 15. Ed è da tenere in considerazione che il 59% dei rifugi è costituito da una sola stanza!
L’affollamento e la precarietà si aggiungono ad uno stato di salute precario per le esperienze traumatiche subite: il 53,4% ha avuto distrutta la propria casa, il 20,6% ha visto parenti morire, il 13,9% ha riportato danni al corpo, il 7,9% ha subito intimidazioni ed il 3% la detenzione.
Più del 70% dei rifugi non ha la cucina, il 77% divide il bagno con altre famiglie, per non parlare dell’acqua potabile che qui può essere solo comprata.
Un soldato siriano dell’esercito regolare racconta che ha pagato 400 $ per viaggiare solo 1 ora, quanto basta per attraversare il confine tra Siria e Libano. Ha disertato perché si è rifiutato di sparare sui civili; l’UNCHR gli ha dato asilo assegnandolo alla Bekaa, zona degli Hezbollah. Ma come sentirsi sicuro proprio lì dove gli Hezbollah, schierati a favore di Bashar Assad, se lo trovano lo riconsegnano al regime? Preferisce quindi la panchina della corniche di Beirut. Aiutami, mi dice, ma come lui tanti, ed il cuore ti si indurisce necessariamente perché tanti te lo chiedono, e tu sei impotente di fronte alle ragioni di tutti, sia di quelli a favore che di quelli contro Bashar Assad.
Il mio vicino di casa, anche lui palestinese venuto dalla Siria, continua a dire che a Yarmouk, il campo siriano fino a poco fa popolato da 1.400.000 palestinesi, vivevano bene fin quando non si è insediato l’esercito per la liberazione della Siria, impossessandosi delle loro case e provocando la ritorsione dei governativi che ha quasi raso al suolo il campo.
Emergono opinioni contrastanti sul regime siriano anche dai diretti interessati, da coloro che ne stanno pagando le conseguenze. Come sempre la guerra, in realtà non ha mai un vincitore.
Questo è ciò che accade a Burj al Shemali dove sono arrivate 1200 famiglie, a Burj al Barajne dove se ne contano circa 750, a Beddawi e Nahr el Bared Abdullah Barake, coordinatore dell’Area Nord di Assumoud mi racconta che ha inviato le sue assistenti sociali a censire le famiglie in quanto era palese che tanti siriani già residenti si sono mescolati ai nuovi arrivati per beneficiare degli aiuti.
Questo lo scenario nei campi in Libano, mentre Beit Atfal Assumoud pensa di ridurre i suoi programmi per potenziare i kindergarten altrimenti, dice Kassem Aina, ai bambini non resta che la strada. Questa la situazione abitativa, mentre Abo Wassim, responsabile dell’Area Sud di Assomud, spera di riuscire a procurarsi delle tende per sistemarli sui tetti almeno per la lunga estate.
E mentre leggiamo che gli U.S.A hanno deciso di fornire armi ai ribelli, i profughi cercano al loro interno una soluzione per indirizzare la propria vita e quella dei propri figli visto che la guerra, a loro dire, sarà molto ma molto lunga ancora.